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    Ailo-Un’Avventura Tra i Ghiacci

    By giubors14 Novembre 2019Updated:14 Novembre 20192 Mins Read
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    Lo statunitense Robert J. Flaherty non è famoso solo per essere stato citato (in realtà a sproposito visto che la pellicola in oggetto, L’uomo di Aran, dura appena 77 minuti) come uno dei registi dei “mostruosi polpettoni” veduti e riveduti da Fantozzi nel cineforum aziendale del professor Guidobaldo Maria Riccardelli, ma anche e soprattutto per aver diretto nel 1922 il primo documentario etnografico della storia, Nanuk l’eschimese, che raccontava la vita di un cacciatore Inuit e della sua famiglia.

    L’opera col tempo è divenuta fondamentale della documentarista moderna fu però criticata per la scarsa spontaneità della sceneggiatura, in quanto Flaherty non si fece scrupolo di concordare le scene con gli protagonisti prima di girare. Ben diversamente da quanto ha fatto, per ovvie ragioni, il regista Guillaume Maidatchevsky, che ci racconta, in questa pellicola scritta da Morgan Navarro e Marko Röhr, per la fotografia di Teemu Liakka e Daniel Meyer e le musiche di Julien Jaouen delle avventure di un abitante molto particolare delle terre artiche dell’estremo Nord Europa  

    Un anno di vita della giovane renna Ailo, tra le prime esperienze della selvaggia Lapponia, la scoperta del proprio ruolo nel branco e la costante minaccia dei predatori.

    Dopo un inizio interessante che ci mostra la nascita del protagonista e il dilemma di sua madre tra le responsabilità come genitore e quella di membro del branco, il documentario fatica a ingranare, complice una certa ripetitività delle situazioni (Ailo incontra un altro animale-digressione sullo stesso-ritorno alle vicende di Ailo), uno scarso approfondimento di tematiche forse più originali come l’impatto dell’uomo sulla natura della tundra lappone e soprattutto la scarsa “iconicità” delle renne. Per i ragazzi di oggi gli storici aiutanti di Babbo Natale sono certamente meno immaginifici di leoni o orsi e perfino dei ghiottoni (il pericoloso mustelide, meglio noto come wolverine) e la narrazione, molto spesso asettica di Fabio Volo, non rende più avvincente un’opera che cerca di vanamente di stupire con l’arcinota capacità della volpe artica di cambiare il colore del proprio manto al mutare delle stagioni o mostrando i lupi grigi a caccia.

    Certamente interessante e istruttivo ma, purtroppo, privo di appeal.

    Andrea Persi 

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