Di Andrea Persi
Prendiamo Gordon Gekko il perfido squalo della finanza dei due film di Oliver Stone. Nella prima pellicola del 1987 è il classico cattivo che calpesta tutti e tutto per i suoi scopi e che alla fine ha quello che si merita. Nella seconda del 2010, mostra invece di avere dei sentimenti e che, tutto sommato, il suo modo di agire era in qualche misura giustificata, mentre con un cameo di pochi minuti Stone smonta, sempre per nobilitare in qualche modo la figura di Gekko, quella dell’onesto Bud Fox. Il cattivo diventa, insomma, antieroe perché gli eroi non ci sono più in un mondo troppo corrotto e spesso, pensiamo a The wolf of Wall Street, egli viene ulteriormente umanizzato, sempre per empatizzarlo con lo spettatore, calandolo in una realtà surreale e grottesca.
L’antieroe odierno che vive in una decadente e surreale Detroit dei primi anni ’90 è invece Richard Wershe Jr, il più giovane informatore della storia dell’FBI, la cui storia ci viene narrata dal regista Yann Demange (71’), per la sceneggiatura del team formato da Andy Weiss, Logan Miller, Noah Miller e Steve Kloves, la fotografia di Tat Radcliffe (Pride) e le musiche di Max Richter (Valzer con Bashir).
Detroit 1995. Il quattordicenne Rick Wershe (Richie Merrit), vive col padre Richard (Matthew McConaughey), piccolo commercianti di armi che sogna di aprire un videonoleggio, e la sorella Dawn (Bel Powley). I problemi economici della famiglia spingeranno il ragazzo a entrare nel mondo della droga e a divenire, suo malgrado informatore delle forze polizia.
Dopo un inizio in stile commedia grottesca, la pellicola oscilla confusamente tra questo genere, il poliziesco e il dramma familiare non sapendo bene da parte “voltarsi”, ma sciorinando senza pietà tutti gli stereotipi del caso, quali feste megagalattiche, viaggi a Las Vega (un must per ogni malvivente degno di questo nome) macchinoni, spacciatori (qui di colore) impellicciati e ingioiellati e conturbanti femmes fatales, raggiungendo tali vette di noia e prevedibilità, che il povero spettatore finisce per soccombere e esse perdendo ogni barlume di interesse nella storia quando il regista decide finalmente di virare su un epilogo di denuncia sociale del potere e della sua intrinseca corruzione. Gli attori, con l’eccezione di McConaughey, straordinario nel ruolo del genitore fallito e bamboccione, manipolato dal figlio adolescente, ci mettono del loro, rendendo ancora più tedioso il racconto e banale il racconto: Merrit è, infatti, espressivo quanto un comodino smontato dell’Ikea, mentre la Powley, con suo perenne “occhio della madre”, risulta più parodistica di Liù Bosisio ne Il secondo tragico Fantozzi.
Un film dalle grandi ambizioni di cui alla fine ci rimane solo un’altra fantastica performance del grande Matthew McConaughey.