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    Cry Macho – Ritorno a casa, la recensione

    By Angelo D'Ambra5 Dicembre 2021Updated:5 Dicembre 20213 Mins Read
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    Da quando ha debuttato con “Brivido nella notte” del 1971, Eastwood non ha mai trascorso più di due anni e mezzo senza supervisionare un film. “Cry Macho – Ritorno a casa” è il trentanovesimo che ci regala e, nel frattempo, ha vinto cinque oscar, ottenendo il premio per il miglior film e il miglior regista sia per “Gli Spietati” che per “Million Dollar Baby”. Quest’ultimo lavoro merita altrettanta attenzione.

    Un campione di bucking horse, ora in pensione, Mike Milo (Clint Eastwood), fa un ultimo favore ad Howard Polk (il cantante country Dwight Yoakam), il suo capo, ed intraprende un viaggio in Messico per riportargli Rafael (Eduardo Minett), il figlio, tredici anni prima abbandonato alla madre inetta Leta (Fernanda Urrejola).

    Convocato ad una celebrazione del mito del western da una campagna pubblicitaria incentrata sul ritorno in sella di Eastwood, lo spettatore si misura da subito con un film che in realtà capovolge tutto l’immaginario ispirato. E’ una decostruzione perfetta del personaggio creato da Leone per l’attore di San Francisco che parte dalla fisicità e arriva al mondo interiore. Conosciamo un novantunenne con la pelle rattrappita, il fisico fiaccato e tanti acciacchi, soprattutto esistenziali, che, spogliatosi della boria giovanile di stella del rodeo, fatica a trovare se stesso. Via via che i minuti scorrono si ha, poi, la sensazione netta che la sceneggiatura stia volutamente schivando l’aggressività del cinema moderno, introdotta proprio dagli spaghetti di Eastwood, in favore di un appressamento sereno, umano e nostalgico, lambito da humor ed intimismo. Non cade mai nella tentazione di dare intensità ai diversi elementi di cupezza e violenza presenti nella storia, che probabilmente, in altri tempi, sarebbero stati diversamente sviluppati. Per esempio sorvola nella descrizione della vita dissoluta di Leta e limita a poche frasi i maltrattamenti, anche sessuali, subiti da suo figlio. Ci si ritrova, così, coinvolti in un confronto generazionale, mai lasciato a meditazioni e dialoghi psicologici, ma affidato a silenzi e brevi battute (forse questa è l’unica cosa che sopravvive del Biondo di una volta. Pardon, dimenticavamo pure il roccioso destro). Tra sfide inaspettate, ripari estemporanei e nuove amicizie Rafo inizia a crescere, impara a cavalcare, a domare l’animale, a capire se stesso, ma alla fine del viaggio è l’anziano Mike ad aver scoperto qualcosa di nuovo dentro di sé ed a scegliere di viverlo in Messico con la vedova Marta (Natalia Traven).

    Nel film si può rintracciare anche un taglio antirazzista con un adolescente chicano che proietta il suo futuro in Texas, al fianco di un padre ricco e venale, mentre un vecchio gringo ritrova i valori persi nel Messico, pur povero e corrotto dei narcotrafficanti e dei combattimenti tra galli. Questa sarebbe una lettura troppo banale.

    “Cry Macho – Ritorno a casa” è un neo-western. Non dà l’addio al mito della frontiera, ma lo interiorizza con malinconica saggezza ed una gentilezza spiazzante.

    La colonna sonora di Mark Mancina è perfetta come la fotografia di Ben Davis. Non mancano spettacolari paesaggi naturali, tramonti, polvere, deserti, ma Clint Eastwood non è più il Predicatore né Harry la carogna, non è un pistolero, è un nonno dolce e fugace, un uomo che consegna la sua storia d’amore ad una connessione di sguardi e lievi tocchi, quasi barcolla nei suoi stivali logori, però il cappello da cowboy gli starà sempre bene.

    Angelo D’Ambra

    Clint Eastwood Cry Macho – Ritorno a casa
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    Angelo D'Ambra

    Angelo D'Ambra, saggista, laureato in Scienze Politiche, anima il portale di divulgazione storica historiaregni.it, scrive di storia nordamericana per farwest.it e si occupa di critica cinematografica e musicale per planetcountry.it e passionecinema.it.

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