Nel documentario Capitalism – a love story, Michale Moore racconta la vicenda del Giudice Mark Ciavarella, che “riempiva” le prigioni private finanziate dallo Stato, di ragazzi colpevoli di piccoli reati, intascando mazzette dai proprietari degli istituti di pena.
Condannato a 28 anni di carcere l’esimio giurista avrà tempo per riflettere su quante vite ha rovinato, ma purtroppo il suo non è un caso isolato di malagiustizia nella “Terra dei liberi” che coinvolgono anche persone condannate alla pena capitale. Su questo tema è incentrato il film, basato sul libro di Bryan Stevenson, avvocato che da oltre 30 anni si occupa di offrire assistenza ai detenuti del “Braccio della morte”, diretto da Destin Daniel Cretton (Il castello di vetro), anche autore dello script assieme ad Andrew Lanham (The kid), mentre Brett Pawlak si occupa della fotografia e Joel P. West delle musiche.
Alabama, fine anni ’80. Bryan Stevenson (Michael B. Jordan) è un giovane avvocato di colore che ha deciso di dedicarsi ad aiutare i condannati a morte e che prende a cuore il caso di Walter D McMillian (Jamie Foxx), in attesa di esecuzione per l’omicidio di una ragazza di 18 anni. Nonostante i sempre più concreti dubbi sul verdetto di condanna, Stevenson dovrà battersi contro l’ostilità e il pregiudizio delle istituzioni locali.
Legal-drama piuttosto convenzionale, quasi televisivo nella sua semplicità narrativa, che non cerca, come potrebbe fare la trasposizione di un libro di John Grisham, la suspense e il colpo di scena, ma di coinvolgere il pubblico, senza troppo indugiare sui tecnicismi giuridici o su una trama complessa, nel racconto delle assurdità e delle storture di un sistema che tenacemente, quasi in maniera kafkiana potremmo dire, auto assolve se stesso dalla possibilità di errore, mentre emette verdetti di colpevolezza basati non sulle prove ma sugli umori dell’opinione pubblica e sullo status sociale e, spesso anche etnico, del sospettato.
Il buon cast e alcune scene di grande impatto emotivo, come quelle relative alle vicende del detenuto Herbert (Rob Morgan) e le sequenze “tribunalizie”, non impediscono però all’opera di risultare cinematograficamente anacronistica, trattando un tema sempre attuale con uno stile che adotta soluzioni narrative fin troppo abusate (le intimidazioni, la prepotenza delle autorità, l’ottusità della magistratura) in molteplici opere degli anni ’90 e 2000.
Venti anni fa sarebbe stato un capolavoro, oggi è un film discreto.
Andrea Persi