Di Andrea Persi
Un vecchio proverbio cinese dice “purtroppo ci sono più uomini che costruiscono muri di quelli che costruiscono ponti”. Una pillola di saggezza che forse ha avuto in mente anche il regista coreano Kim Ki-duk, quando ha deciso, dopo aver esplorato in maniera introspettiva e spesso surreale il mondo dell’amore e della sessualità in pellicole come Ferro 3 – la casa vuota e Moebius, di dedicare la sua ultima opera al “muro”, politico, ideologico e culturale che da ormai da 53 anni divide il suo Paese tra il nord comunista e filocinese e il sud capitalista e filoccidentale, visto attraverso gli occhi di un uomo comune.
Nam Chul-woo (Seung-bum Ryoo) è un pescatore nordcoreano che vive modestamente con la moglie e la figlia piccole. Durante un normale giorno di lavoro, un guasto al motore trascina la sua imbarcazione oltre il confine con la Corea del Sud dove viene preso in custodia dalle autorità, rimanendo vittima degli abusi di un sadico funzionario di polizia (Young-min Kim), che lo considera una spia, ma trovando anche conforto dell’amicizia col giovane agente Oh Jin-woo (Won-geun Lee) che, invece, vorrebbe rimandarlo a casa, mentre i due governi cercano di sfruttarlo per i loro scopi politici.
Il titolo scelto per la distribuzione nel nostro Paese appare emblematico del significato del film che vuole rappresentare la storia di un uomo che diviene prigioniero contemporaneamente di due nazioni rivali Infatti, mentre il corpo di Nam è recluso, percosso e umiliato dal sud, la sua anima viene seviziata da nord tramite il pensiero di ciò che il regime potrebbe fare ai suoi cari se sospettasse un suo tradimento. Una violenza che il protagonista subisce anche tramite le lusinghe del Sud, che gli promette agi e beni materiali se abbandona il suo Paese e del Nord, che cerca di farne un eroe nazionale la cui famiglia, quindi, può considerarsi al sicuro, almeno finché si manterrà fedele e che sono tutte finalizzate a permettere ai due governi di sfruttarlo per i loro scopi, emblematica in questo senso la scena dell’uscita “controllata” dalla stazione di polizia, mentre ogni piccolo cedimento, come accettare un giocattolo per la propria bambina o ingenuità, come portare un messaggio alla famiglia di un compagno di prigionia, diventa un cappio sempre più stretto al collo del protagonista che, in maniera kafkiana, è vittima di meccanismo assurdo e inumano, si pensi al capo della polizia che a un certo punto dichiara orgogliosamente di essere pronto a sottoporre Nam a qualunque vessazione per convincerlo a disertare, salvandolo dalla crudele dittatura del Nord, che lascia poco spazio alla speranza che tra le due parti, entrambe avide e corrotte, ci potrà mai essere un primo passo verso l’altra, tanto che le sequenza finali rendono velleitari e, anzi, quasi funzionali a trasmettere il messaggio opposto, le scene in cui si costruisce il rapporto d’amicizia tra il protagonista e il giovane Oh Jin-woo, personaggi rappresentanti entrambi in maniera appassionata e convincente dai rispettivi interpreti.
Un’opera cruda e pessimista questa di Kim Ki-duk ma che ci ricorda che se, come dice a un certo punto Henry Fonda in A prova di errore di Lumet, sono gli uomini ad alzare i muri, a tenerli in piedi, come afferma Nam parlando della riunificazione dei due Paesi, sono solo i prepotenti.