Risale al 1960, con “La Maschera del Demonio”, l’esordio in regia di Mario Bava. Dopo essersi occupato per più di venti anni di fotografia ed effetti speciali, si cimentò in un lavoro avanguardistico e seminale che fissò i cardini del gotico. Bava raccontò la resurrezione di una coppia di vampiri nella Russia del XIX secolo e fu capace di rinfrescare una tematica che il cinema americano proponeva già dagli anni Trenta del Novecento, coi Dracula interpretati da Max Schreck e Bela Lugosi.
Il regista italiano riuscì perfettamente a trasmettere le sensazioni di raccapriccio e schizofrenia, la vacuità terrifica dell’assurdo, l’oppressione del male e per farlo si servì di diversi ingredienti. Giocò con le percezioni sensoriali e con ambientazioni che già erano cliché, poi ricorse alla paura delle maschere, inserendone un modello chiodato, s’avvalé di omicidi realistici, di visi butterati, del tema ripugnante della necrofilia, ma gli fu utilissima su tutto, Barbara Steele. L’attrice britannica, che con questa interpretazione divenne l’icona delle “Scream Queens”, fu impiegata da Bava in maniera brillante. Ebbe, infatti, due ruoli, quello angelico di Katia e quello demoniaco della strega-vampiro Asa, sua prozia, e ciò accrebbe l’agitazione e lo sconcerto del pubblico che trovò lo stesso volto nel personaggio malefico e in quello innocente. Inoltre, la proiezione su tela, per due volte, della Steele e il sottoporre il suo viso alle adulterazioni della telecamera contribuirono a dilatare l’alone sinistro e le vertigini, lo sbigottimento dell’osservatore. La colonna sonora di Roberto Nicolosi, poi, è perfetta per questa storia.
Il gotico, secondo una interpretazione fortunata, incarna le paure della borghesia illuminista d’una controrivoluzione, un recupero aristocratico del potere. Il ritorno del passato assume la forma di una dannazione o di una maledizione antica che percorre i secoli e minaccia un presente da cui le reliquie feudali non sono scomparse. Sono cripte abbandonate alle ragnatele, cimiteri dimenticati, castelli diroccati e soverchiati dalla vegetazione, sono anche gli ultimi virgulti delle schiatte nobiliari, gli eredi dell’antico patriziato medioevale. Ne nasce uno scontro tra superstizione e mentalità scientifica, tra timori e incredulità. La scenografia di Giorgio Giovannini non si sottrae a questo motivo.
Dopo aver assistito al supplizio di una vampira da parte di un inquisitore nel Seicento, ci ritroviamo nel 1830, diretti a Mosca, con due esponenti della borghesia laica, il dottor Choma Kruvajan (Andrea Checchi) e il suo assistente Andrej Gorobec (John Richardson). La loro carrozza ha un problema e si ferma in un bosco moldavo, poco distante dall’antica chiesa in cui giace mummificato il corpo di Asa, la vampira messa a morte. I due viaggiatori vi entrano, il dottore trova il sepolcro della donna e, senza rendersene conto, per proteggersi dall’attacco di un pipistrello, lo spacca. Inavvertitamente si ferisce e gocce del suo sangue cadono sul corpo della strega che così torna a vivere per vendicarsi dei suoi stessi familiari, signori di quelle terre e discendenti di chi l’aveva condannata. Paradossalmente la controrivoluzione riesce ed è la borghesia la nuova aristocrazia: il male prendere possesso del medico (quindi il passato oscurantista si impadronisce della mentalità moderna) e viene sconfitto solo quando il suo assistente si serve delle formule in cirillico per bloccare Asa e mandarla al rogo (la scienza fa propri anatema e Inquisizione).
“La Maschera del Demonio” uscì nello stesso anno di “Psycho” di Alfred Hitchcock. Un raffronto tra i due registi è doveroso. Si può dire che l’inglese si mostrò più interessato al profilo psicologico dei suoi personaggi, mentre l’italiano puntò a colpire la psicologia del pubblico con le esteriorità estrose della sua telecamera quasi come un nuovo Giambattista Marino (“È del poeta il fin la meraviglia… chi non sa far stupir, vada alla striglia”). Bava doveva stupire, è questa la missione che fece sua. Hitchcock girò “Psycho” in bianco e nero semplicemente per evitare la censura e risparmiare denaro. Bava, invece, respinse con fermezza le richieste della produzione di girare in Technicolor, perché le sequenze di trasformazione dei volti richiedevano luci speciali, rosse e verdi, su corpi truccati e in set progettati senza colore. La sequenza in cui il corpo di Asa si ricompone è esplicativa: la mutazione della carne che prende vita è realizzata con l’uso di luci colorate che il Technicolor avrebbe reso inservibili. Stesso dicasi per la scena in cui Asa prosciuga Katia della sua giovinezza: sul viso della Steele c’erano disegnate delle rughe con una matita rossa che un’illuminazione vermiglia rendeva inizialmente invisibili, ma emergevano man mano che si lasciava campo alle luci verdi.
Così Bava fu in grado di rinnovare l’atmosfera degli horror della Universal, illustrando graficamente ciò a cui i film americani accennavano solamente. Mostrò il sangue che fuoriesce dalle teste e cadaveri in decomposizione. Tutto questo era una novità per il panorama cinematografico di quegli anni e fu così scioccante che i distributori americani proibirono il film ai minori di dodici anni e, in Gran Bretagna, la pellicola fu vietata fino al 1968. In Italia, invece, gli incassi furono un disastro. Il pubblico non prese sul serio un gotico realizzato da un connazionale e Mario Bava scelse di proseguire sulla sua strada con lo pseudonimo anglosassone di John M. Old.
Eccovi il trailer
Angelo D’Ambra