Di Andrea Persi
Nella scena clou di Amistad, un infervorato Anthony Hopkins nei panni dell’ex presidente degli Stati Uniti John Quincy Adams pronuncia un accorato discorso sulla libertà come stato naturale dell’uomo a cui esso tende con qualunque mezzo e a qualunque costo. Ma lo stesso fanno le classi dominanti per mantenere uno status quo che le favorisce e questo più volte nella storia ha dato origine a episodi di repressione, uno dei più celebri dei quali immortalato da Sergej M. Ėjzenštejn nel suo, con buona pace di Paolo Villaggio, capolavoro La corazzata Potemkin. Di un altro di questi avvenuto nell’Inghilterra del 1800 si occupa Mike Leigh (Il segreto di Vera Drake, Turner) regista e sceneggiatore dell’opera girata con la fotografia di Dick Pope (Me and Orson Wells, Legend) e le musiche di Gary Yershon (La felicità porta fortuna – Happy Go Lucky).
Uscita vittoriosa dalle guerre napoleoniche dopo la battaglia di Waterloo, l’Inghilterra è una nazione retta dall’imbelle principe di Galles in cui mentre i ricchi mantengono gelosamente i loro privilegi, gli strati più deboli della popolazione sono ridotti alla fame. Nel nord del Paese un’eterogenea comunità di borghesi e proletari, ispirata dalle parole dell’oratore Henry Hunt (Rory Kinnear), decide di organizzarsi per ottenere il diritto di voto, ma la reazione dei governanti non si farà attendere.
Pellicola corale lunga (ben 154 minuti) e manierosa della quale lo spettatore anche per il notevole numero di sottotrame e personaggi e per le scene quasi interamente dialogiche, fatica a seguire lo svolgimento, ma che va lodata per ricostruzione storica e la denuncia sociale, tramite l’utilizzo della parodia, degli orrori del Potere rappresento da personaggi simili a bambini viziati e umorali, che in teoria governano in nome di Dio ma di fatto utilizzano, si vedano le scene in montaggio alternato dei magistrati giudicano spietatamente i poveri colpevoli di piccoli reati, per tiranneggiare i più deboli, cosa che in certo senso fanno anche i focosi capi popoli della rivolta, tra cui lo stesso Hunt, i cui fini personali raramente sembrano distinguersi da quello di aiutare gli oppressi, si pensi alla scena in cui l’oratore tratta con una distaccata sufficienza due attivisti, di ceto sociale inferiore, giunti da Manchester per incontrarlo o la scena del comizio del gruppo delle donne. Leigh rappresenta, insomma, lo scollamento tra le diverse classi sociali che ci appaiono, anche quelle più strettamente connesse come gli operai e i piccoli borghesi, estranee tra di loro e come questo vada a tutto vantaggio dei potenti ai quali le giuste rivendicazioni del popolo sembrano capricci (per loro) incomprensibili.
L’incomunicabilità tra i vari strati della società come preludio alla brutale repressione della protesta, magnificamente resa nella scena clou del film e la simpatia gli ultimi, in particolare per la famiglia del giovane e un po’ tardo Joseph (David Moorst)reduce della battaglia di Waterloo, priva, come tutti i personaggi di basso rango, di un cognome che la identifichi proprio per sottolinearne la diversità dai borghesi il cui cognome ci viene reso noto e dai nobili che hanno anche un titolo, sono dunque al centro dell’originale narrazione del cineasta inglese di un episodio che sebbene poco noto è emblematico di quei momenti della storia, purtroppo ancora presenti anche al giorno d’oggi, dove i diritti dell’individuo vengono calpestati dall’elite.