Stan Laurel li definiva: “due teste senza un solo pensiero”, mentre Oliver Hardy disse che: “Il mondo è pieno di persone come Stanlio e Ollio. Basta guardarsi attorno: c’è sempre uno stupido al quale non accade mai niente, e un furbo che in realtà è il più stupido di tutti. Solo che non lo sa”. Questa seconda affermazione riassumeva, certamente, lo spirito dei due personaggi creati dalla celebre coppia comica e, in un certo senso, ne spiegava lo straordinario successo presso il pubblico, sopravvissuto a quell’apocalittico stravolgimento che fu l’introduzione del sonoro del Cinema, che distrusse la carriera di stelle quali Buster Keaton, Douglas Fairbanks e, in una certa misura, Charlie Chaplin, e perfino alla scomparsa dei due artisti. A 52 anni dalla scomparsa di Laurel e a 62 da quella di Hardy, la loro opera e la loro vita vengono (finalmente) omaggiati sul grande schermo dal regista televisivo Jon S. Baird in un biopic sceneggiato da Jeff Pope (Philomena), per la fotografia di Laurie Rose (Pet Cemetary) le scenografie di John Paul Kelly (La teoria del tutto) e le musiche di Rolfe Kent (Downsizing – Vivere alla grande).
Nel 1953 per Stan Laurel (Steve Coogan) e Oliver Hardy (John C. Riley) sono ormai lontani gli anni dei trionfi hollywoodiani e la coppia, bisognosa di lavorare, mentre spera di poter realizzare una commedia su Robin Hood, accetta la proposta dell’impresario Bernard Delfont (Rufus Jones) per una tournée teatrale in Inghilterra. Ma nonostante l’appoggio delle rispettive mogli, la determinata Ida (Nina Arianda) e la dolce Lucille (Shirley Henderson), gli acciacchi della vecchiaia, gli scarsi mezzi della produzione e le vecchie incomprensioni mai affrontate, metteranno a repentaglio sia il loro rapporto professionale che la loro amicizia.
Baird, fedele al suo background televisivo, realizza un’opera senza troppi fronzoli e dalla durata contenuta, in cui prevalgono campi medi e scenografie modeste, sia pure inappuntabili per il periodo storico. Un pellciola, dunque, a basso grado di spettacolarità, non certamente paragonabile al Gandhi di Richard Attenborough o al più recente Bohemian Rhapsody di Bryan Singer e Dexter Fletcher, ma che forse proprio per il fatto di non puntare troppo sull’estetica e grazie alle eccezionali interpretazioni dei protagonisti, che si possono apprezzare fin dalle prime sequenze in cui viene riproposta la celebre scena, del balletto de I fanciulli del West, riesce a raccontare attraverso la sua parabola finale, la grandezza artistica dei due geni della commedia, le loro debolezze personali, come l’eccessivo amore di Hardy per gioco o il quasi patologico bisogno di Laurel, vero cervello della coppia, di essere considerato più che un semplice comico e soprattutto la loro sincera amicizia, così rara al giorno d’oggi nel mondo dello showbiz.
Semplice, ma profondo come ha saputo essere la comicità degli indimenticabili Stanlio e Ollio.
Andrea Persi