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    The French Dispatch,recensione

    By giubors10 Novembre 2021Updated:10 Novembre 20213 Mins Read
    The - Passione Cinema
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    Tre anni dopo il film d’animazione a “passo uno” L’isola dei cani, il fantasioso ed eccentrico Wes Anderson torna dietro la macchina da presa per dirigere quello che è stato definito un atto d’amore verso il mondo del giornalismo, ma che per il regista è piuttosto un’opera che è nata guardando L’oro di Napoli di Vittorio De Sica.

    Per oltre 30 anni il French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun ha costituito il supplemento settimanale del quotidiano americano, occupandosi di cronaca e cultura nella città di Ennui-sur-Blasé. Alla morte del suo direttore (Bill Murray), la redazione decide di pubblicare un’edizione commemorativa composta dai migliori articoli pubblicati dal Dispatch nel corso degli anni tra cui la storia di un artista condannato per duplice omicidio, le rivolte studentesche del ’68 e il rapimento dello chef personale di un ufficiale di polizia.

    La pellicola è stata presentata a Cannes, dove hanno fatto più notizia i bermuda di Bill Murray e gli sgargianti completi di Timothée Chalamet. E vedendola, si capisce benissimo il perché. Il film è un compiaciuto e snob racconto a episodi, fatto di personaggi bizzarramente nichilisti che si limitano a parodiare i luoghi comuni della cultura francese come l’amore per la cucina, il sesso (preferibilmente se morboso) o l’attivismo politico, in racconti dagli esiti improbabili e, soprattutto il secondo, insensatamente prolissi. In un impeto di egocentrismo degno del Marchese del Grillo, Anderson recluta un cast corale stellare, in cui, alla fine dei conti, brillano unicamente Timothée Chalamet, (gabellato da qualcuno come per un giovane Franco Zeffirelli) Benicio del Toro e Adrien Brody) per poi relegare in inutili camei, spesso rendendoli  irriconoscibili al povero spettatore (forse ritenuto troppo incolto per capire il senso di cotali finezze) attori del calibro di Edward Norton o Christoph Waltz per non parlare del mitico Henry Winkler di Happy Days, mentre lascia che l’espressione simil “blocco di tufo” di Léa Seydoux ammorbi il pubblico per tutto il primo episodio (quello più riuscito dei tre, comunque) e che il povero Luke Wilson limiti la sua performance a fare il clown che cade dalla bici nello spiegone introduttivo della cittadina di Ennui-sur-Blasé (un non luogo facilmente identificabile con Parigi).  

    Anche il tanto decantato talento estetico del regista si riduce a riciclare gli espedienti cromatici di Grand Budapest Hotel (di cui questo film sembra una brutta copia) e a riprodurre su schermo le scenografie di Jacques Tatì (penosa la citazione iniziale di Mon Oncle) e i fumetti di Tin Tin (che comunque era belga, ma tanto chi vuoi chi se ne accorga?), alternando in maniera sconclusionata il bianco nero e dialoghi in lingua originale a quelli in lingua francese.

    Che l’opera di De Sica abbia ispirato ad Anderson unicamente la struttura a episodi del suo film si vede. Purtroppo per noi fin troppo.

    Andrea Persi

    Eccovi il trailer internazionale

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